GUIDA  Radicofani

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Foto Radicofani:
2012, 2009, 2008

Radicofani è situato nella Toscana nella Provincia di Siena. Tra gli edifici religiosi: Chiesa Parrocchiale di San Pietro; Chiesa di Sant'Agata, in Via Roma; Pieve di Santa Maria Assunta (in località Contignano). Da Vedere: Rocca di Radicofani.

Confina con i comuni di: San Casciano dei Bagni, Pienza, Sarteano, Abbadia San Salvatore, Castiglione d'Orcia e Piancastagnaio.

La Val d'Orcia, di cui il Comune fa parte, è Patrimonio dell'Umanità iscritto nella prestigiosa lista dei Siti Unesco.

Indice

Biblioteche

  • Biblioteca Comunale, Via R. Magi, 39

Volontariato, Onlus e Associazioni

  • Confraternita di Misericordia Radicofani, Piazza San Pietro

Complessi Bandistici

  • Banda Giuseppe Verdi

Informazioni Utili

Icona train t.gif Come Arrivare Icona memorie t.gif Memorie Storiche

Bibliografia

  • Radicofani. Guida alla rocca e al borgo, R. Terziani Aymara, Ed. Cantagalli (1999)
  • Val d'Orcia. Castiglione d'Orcia, Montalcino, Pienza, Radicofani, San Quirico d'Orcia, Ed. Aska (2003)
  • Guida ai centri storici della Val d'Orcia. Castiglione d'Orcia, Montalcino, Pienza, Radicofani, San Quirico d'Orcia, Robert Patrizio, Ed. Le Balze (2005)
  • La città fortificata di Radicofani, Carlo Avetta, Ed. NIE (2006)
  • Radicofani e il suo statuto del 1441, B. Magi, Ed. Cantagalli (2004)
  • Le Robbiane di Radicofani e Santa Fiora, Bruno Santi - Carlo Prezzolini, Ed. Cantagalli (1993)

Memorie Storiche

Attilio Zuccagni-Orlandini nel suo Indicatore topografico della Toscana granducale (1856) così scrive:

RADICOFANI. Capoluogo con Delegazione e Pretura civile e criminale di 3a Cl., Dogana di frontiera, e Distribuzione postale di 2a Classe. - Dopo l'estinzione del vulcano eruttante in secoli lontanissimi tra il Monte Amiata e la Montagna di Cetona, sembra che gli Aborigeni, anzichè fermare il domicilio per quelle adiacenze, se ne tenessero lontani per un resto di timore, lasciando che natura nella quiete del tempo ricuoprisse colla vegetazione l'orrida congerie dei prodotti vulcanici. Da ciò ne conseguì il lungo silenzio della storia, al quale tentò più tardi di supplire la nota leggenda dei Reali di Francia, favoreggiando di erranti capitani del gran Costantino e del suo stesso sangue regio, chiusi in romitaggio nella folta selva, ove un angiolo scendeva a recar loro ristoro di cibi, ed eccitamento ad imprese valorose col dono del celebre stendardo Auriflamma, depositato poi come sacro palladio delle armi franche nell'Abbadia di s. Dionigi.

Alla oscurità dei primi secoli dell'era moderna succederono i tempi più barbari, ma meno incerti del feudalismo, allorquando i piccoli despoti delle province cercavano asilo in rocche inaccessibili per meglio esercitarvi le loro ruberie. Fu di quel tempo costruito un castello sul monte di Radicofani, ed in Vicarj imperiali ne concederono forse il dominio al monastero Amiatense, che lo donò alla Chiesa. Adriano IV pensò poi di farne una fortezza di frontiera, ordinando la costruzione di una fortissima rocca. Due secoli dopo divenne questa un asilo di masnadieri, capitanati dal famoso Ghino di Tacco. Sull'esempio di Ghino se ne rese più tardi padrone il Tartaglia, e la vendè poi ai Senesi.

Poco offre di notabile il castello. E' un gruppo di fabbricati disposti a piè delle rupi basaltiche per la parte di mezzodì: una via principale ampia e comoda lo traversa longitudinalmente; su di essa è la piazza del mercato, la piazza detta del Santo, in cui è posta l'Arcipretura da un lato e l'Oratorio di s. Agata dall'altro; al termine della predetta via, per dove ascendesi alla fortezza, è il Pretorio. La fortezza sebbene in gran parte smantellata, comparisce tuttora ammirabile e per il sito in cui è posta e per la solidità delle mura, dei bastioni, delle cortine che la ricingevano. Sarebbesi al certo conservato in essa un capolavoro di architettura militare, ma Gio. Pieri da Pian Castagnaio, che nel 1735 ne aveva la custodia, preso da frenesia appiccò il fuoco al magazzino delle fortificazioni, sotto le quali restò sepolto. (V. Atl. Tosc.).



Memorie Storiche

CARLO AVETTA nella pubblicazione "La Città fortificata di Radicofani. Storia trasformazioni e restauro di un castello Toscano" Nuova Immagine Editrice-settembre 1998 ISBN88-7145-142-2, nel commentare i lavori del notevole restauro finanziato dal CIPE negli anni 1989-1998 così scrive:

Icona storia t.gif Storia GLI ASPETTI METODOLOGICI DEL RESTAURO di Radicofani

L’immagine della collina di Radicofani prima dell’inizio dei lavori di restauro fornisce un’idea solo approssimativa, anche se eloquente, della situazione in cui la fortezza si trovava all’inizio degli anni ’80. Le murature attuali non erano soltanto nascoste dalla vegetazione, ma sepolte sotto gli oltre 5.000 m3 di terra che sono stati scavati e setacciati durante i lavori. Non era chiara la tipologia delle postazioni di tiro, né se queste fossero casematte voltate o cannoniere a cielo aperto. La postazione conservata meglio delle altre, quella di Sant’Andrea, appariva parzialmente coperta da una volta interrotta a due terzi della sua profondità. Solo più tardi, dopo l’avvio dei lavori, abbiamo appurato trattarsi della tipologia cinquecentesca e non di una parziale ricostruzione. Con l’eccezione del bastione di Sant’Andrea, cui si accedeva dal piano di campagna innalzatosi fino all’apertura della postazione di tiro, nessuna delle cannoniere era facilmente accessibile. La postazione di San Giovanni disponeva di un accesso, ma il percorso indirizzava verso il cunicolo di una fuciliera più che verso il baluardo principale della cui volta restava in piedi un tratto insignificante; un altro bastione, quello di Santa Maria, non disponeva di un accesso praticabile. Il corpo di guardia e le postazioni rimanenti erano sepolti, interamente franati, ricoperti da terreno mischiato ai materiali dei crolli delle strutture. Negli ultimi due secoli alcuni riempimenti naturali erano stati integrati dai pastori che utilizzavano la rocca come ricovero. Ciò evitava rischi per sé e il bestiame in un ambiente costellato da buche profonde e pericoli di vario genere. La cinta muraria principale della fortezza, che manteneva pochi frammenti del paramento esterno realizzato nella pietra lavica locale, si presentava quasi ovunque con la sola muratura del sacco, il riempimento di conglomerato e sassi che dà consistenza e spessore al muro e che appariva quasi ovunque. Gran parte del pietrame di rivestimento era stato utilizzato per le ricostruzioni o le nuove costruzioni dell’abitato sottostante. Tra le più evidenti la cinta muraria del cimitero e i rifacimenti del capoluogo dopo il terremoto del 1933 che sfruttarono l’ottimo pietrame delle mura cinquecentesche, in parte già riciclato al tempo dei Medici da quelle anteriori. I detriti accumulatisi con lo sfruttamento della “cava” hanno costituito una difesa spontanea del muro originario accumulandosi ai suoi piedi e nascondendone una fascia progressivamente crescente. Con l’inizio del restauro è stato sufficiente rimuovere lo strato di terra a ridosso delle murature per ritrovarne la parte rimasta integra al di sotto. Oggi, a lavori conclusi, la linea del piano di campagna degli anni ’80 coincide con la continuità del pietrame del paramento originario alla base delle murature e appare quasi ovunque in leggero rilievo per via del sottosquadro – la posizione leggermente arretrata – in cui sono state murate le pietre recuperate nel corso del restauro, come risulta evidente nella foto sottostante. Dal canto loro gli alberi piantati negli anni ’60 hanno svolto una certa funzione protettiva, in quanto hanno impedito negli anni più recenti, finito il pietrame facilmente asportabile dalle murature, il recupero di quanto rimasto sepolto sotto le radici della vegetazione del Piano Fanfani. Negli anni Sessanta infatti l’allora presidente del Consiglio ovviò alla disoccupazione della sua regione natale, la Toscana, con un piano di occupazione che assegnava 600 lire quotidiane e un piatto di minestra calda giornaliera ai disoccupati dell’epoca; ovvio che le essenze piantumate, sfortunatamente esotiche, siano risultate eccessive per far durare più del necessario l’operazione. Il restauro è stato finanziato con 9.760 milioni di lire, ma partiva da un programma più ampio e una richiesta finanziaria tre volte superiore all’importo assegnato. Aveva per oggetto il castello di Radicofani, al confine tra lo Stato pontificio e la Repubblica senese e era in auge al momento anche per aver ospitato tra le sue mura un brigante celebrato da Dante e Boccaccio, Ghino di Tacco. Di Ghino si parlerà, in termini di realtà storica, nel capitolo successivo dedicato alle vicende del castello. La richiesta di finanziamento era stata formulata al Ministero del Bilancio dal Nucleo di valutazione dei progetti FIO del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, attraverso la Soprintendenza di Siena con la collaborazione di quella archeologica della Toscana nell’autunno del 1988. FIO significa “Fondo Investimento Occupazione”. Si riferiva a progetti elaborati in funzione di un rientro economico soprattutto in termini di occupazione. La cultura ha sempre interessato in minima parte tali iniziative che non sono oggi più finanziate. Il progetto presentato interessava la fortificazione nel suo insieme: oltre alla fortezza di sopra anche le mura storiche che rimangono attorno al borgo, quelle del Girone e di Castel Morro, circuiti fortificati di supporto al primo, e infine alcuni edifici dell’abitato individuati come sede di un parco storico-archeologico. L’edificio mediceo della Posta, avrebbe dovuto soddisfare funzioni ricettive legate alle attività programmate nell’ambito del progetto: una sede per un centro di documentazione archeologico medievale e un centro di documentazione naturalistico-ambientale. Quest’ultimo traeva spunto dalle caratteristiche naturali delle colline circostanti la rocca. L’ambiente naturale che caratterizza la zona è infatti particolarmente interessante per le crete, la vegetazione e le foreste spontanee che distinguono da secoli la Val d’Orcia. Il progetto prevedeva quindi un’ampia sostituzione delle piantumazioni delle essenze del Piano Fanfani, per eliminare l’interferenza con l’ambiente spontaneo contiguo. Il finanziamento è stato concesso per il solo consolidamento della parte storica dell’architettura. Tale situazione ha vincolato gli operatori indirizzandoli verso un intervento di tipo più tradizionale. Lo scavo archeologico e il restauro di una struttura antica con un piccolo museo al suo interno che ne illustra oggi la storia e presenta i risultati del lavoro. Gran parte dei principi economici previsti dal FIO si sono dovuti indirizzare verso gli interessi che una fortificazione rinascimentale può risvegliare nei visitatori. Ciò comporta l’esclusione di un restauro in funzione dei soli aspetti culturali tradizionali per rispondere a esigenze anche distanti da problematiche di tipo filologico per andare incontro alla crescente attenzione che gli eventi culturali risvegliano in un numero crescente di persone. Sotto tale ottica hanno trovato spazio le ricostruzioni, funzionali all’architettura che ritorna, grazie a queste, a vivere. La nuova vita risponde alle esigenze di reinserire nel circuito delle attività umane un “monumento" senza destinarlo a divenire la sola immagine di se stesso, e risponde alle attese di un vasto pubblico che, a Radicofani, percepisce nella passeggiata all’interno della fortezza restaurata gli aspetti culturali partendo da quelli di più facile comprensione: il legame con la storia trascorsa e l’evoluzione nell’ambito della tecnica della difesa. Tecnica di passaggio nella fortezza di Radicofani a cavallo tra archi, scale e balestre del periodo tre-quattrocentesco, e i terrapieni e le murature scarpate divenute la norma dopo il ’500 con la diffusione delle armi da fuoco. Gli approfondimenti di carattere scientifico sono andati di pari passo con i lavori e sono nella maggior parte illustrati in questo volume. Nella passeggiata attraverso le strutture restaurate alcuni accorgimenti consentono di distinguere tra gli elementi originali e le zone ricostruite. Questi vanno dal sottosquadro, di cui si è detto, agli intonaci protettivi che interrompono, con i vuoti, la continuità muraria fino alle ricostruzioni virtuali presentate nel Museo. Ciò per evitare interventi ricostruttivi eccessivi o non verificabili. Nella torre del cassero si conclude il percorso idealmente e materialmente realizzato attraverso la storia, illustrata da pannelli e dagli oggetti rinvenuti esposti nelle vetrine, che accompagnano il visitatore fino al punto più alto della struttura difensiva. Salire sul punto più alto è l’aspirazione della maggior parte dei visitatori ed è logico che lassù si concluda la passeggiata nella fortezza di Radicofani approdando al panorama più completo sulla Val d’Orcia. La metodologia dell’intervento Si è parlato di approfondimenti di carattere scientifico e questi hanno comportato ricerche e utilizzo di metodi innovativi di lavoro abbinati a quelli tradizionali. Si è fatto un largo uso dell’informatica applicando questa scienza recente al restauro con spirito un po’ pioneristico. Partiti da un rilievo fotogrammetrico, siamo approdati, nel corso dei lavori, a un modello virtuale tridimensionale. L’uso del computer è passato dalla stesura di tavole quotate all’utilizzo del rilievo volumetrico della fortezza adattandolo a ricostruzioni storiche virtuali e animazioni in video. Grazie all’informatica si è creata una banca dati in cui sono immagazzinate le documentazioni storiche, archivistiche, video e fotografiche trattate durante lo studio. Queste sono rielaborate nei pannelli esposti nel museo, di cui una parte è riprodotta nelle dieci tavole distribuite lungo il testo. La banca dati rappresenta un punto di riferimento per ulteriori approfondimenti che si volessero fare in futuro. Contestualmente sono state condotte analisi mineralogiche su pietre e malte per verificare l’attendibilità delle ipotesi virtuali e affrontare i problemi sotto diverse angolazioni. La ricerca ha visto la facoltà di Scienze Naturali dell’Università di Siena parte attiva nelle operazioni insieme a professori dei dipartimenti umanistici, che, in collaborazione con gli archeologi della Soprintendenza, si sono attivati nelle ricerche d’archivio condotte ad ampio raggio a Siena, Firenze e Roma, le capitali che hanno determinato nei secoli l’evolversi di Radicofani. Le sinergie createsi a monte dell’intervento ne hanno condizionato la fase operativa e sono state il riferimento cui ci si è attenuti nella fase di ricostruzione di alcune parti andate perdute. Il primo problema metodologico si è posto all’inizio dei lavori operativi con la scelta dei materiali che potevano essere utilizzati per la conservazione e la parziale ricostruzione. La Carta del rischio sismico sarebbe arrivata soltanto alcuni anni dopo l’inizio dei lavori di consolidamento di Radicofani. Un riferimento metodologico di questa portata avrebbe consentito un approccio più vicino ai contenuti delle Norme tecniche per la redazione dei progetti di restauro relativi agli interventi sui beni architettonici vincolati in zona sismica. D’altra parte il restauro, nato in funzione dell’accessibilità del pubblico e avviato prima della promulgazione del documento, non poteva allontanarsi dal puntuale rispetto dalla normativa sismica di legge in vigore. Questa non distingue tra un nuovo muro di contenimento di terreno sciolto e un muro che sostiene un terrapieno vecchio di 500 anni fatto di storia e di terreno consolidatosi nel tempo al punto di divenire in realtà autoportante. Le indagini eseguite sulla natura del terreno avrebbero dovuto confermare quello che sembrava evidente, ma che tre studi geologici hanno dimostrato non verificabile teoricamente: la coesione naturale del terreno, non è risultata per l’appunto rientrare nei limiti di sicurezza stabiliti dalle normative. Il muro storico ha dovuto essere rinforzato perché, a dispetto dei terremoti e dell’abbandono secolare, secondo la teoria non sarebbe in grado, se ricostruito nello stesso modo, di proseguire nella funzione già svolta per oltre 400 anni. In altre parole si sono fatte integrazioni anche in cemento. Materiale detestato dai “puri" del restauro ma l’unico che, a costi accettabili, soddisfa aspetti apparentemente inconciliabili: il rigore filologico e le normative tra i cui estremi l’intervento si è dovuto destreggiare. Queste considerazioni danno una idea di quanto distanti possano trovarsi a volte nel restauro la teoria e la pratica. Ciò va detto non solo per gli ambiti tecnici, ma anche per quelli metodologici di fondo. Questi dispongono di un riferimento universalmente accettato, la Carta del restauro, fondata sul concetto brandiano della conservazione critica che esclude il principio dell’aggiunta legata in qualche modo alla ricostruzione. Da un lato abbiamo allora la pietra murata a calce che non garantisce i coefficienti di sicurezza, dall’altro una teoria che estrapolando e uniformando problemi di dipinti e fortezze, mette in crisi gli operatori di fronte alle problematiche proprie delle strutture di grossa portata. La contraddizione che ne deriva investe aspetti del recupero storico che possono essere meglio compresi attraverso alcuni riferimenti. Nelle ricostruzioni in corso nella Germania riunificata dopo la caduta del muro di Berlino, alcune migliaia di milioni di marchi vengono investiti in lavori di “restauro" per “superare simbolicamente le separazioni del mondo cancellando i simboli delle separazioni in Europa". Le parole tra virgolette, tratte da dichiarazioni rilasciate da personalità appartenenti agli Enti pubblici e privati che finanziano tali operazioni, sono l’unica vera base metodologica degli interventi. Fra le ricostruzioni, dopo quelle già realizzate su vasta scala a Berlino, quella della Frauenkirche di Dresda, nella ex-Germania orientale, è la punta di diamante delle anastilosi in corso avviata su una chiesa barocca che imponeva dall’alto dei suoi 95 metri la sua presenza in un delicato contesto barocco. Distrutta da uno storico bombardamento, ne sono conservate un migliaio di tonnellate di frammenti oggi ordinati in contenitori metallici ai piedi di un immenso ponteggio preludio di ricollocazione in una struttura identica a quella irrimediabilmente perduta. L’ultimazione dei lavori è prevista per il 2006 e comporterà una spesa certamente superiore ai trecento milioni di marchi. La città di Dresda nel febbraio 1945 fu rasa al suolo da un bombardamento alleato mirato alla distruzione sistematica di uno dei più significativi centri storici tedeschi per fiaccare un nemico in realtà ormai vinto. La città odierna vuole riappropriarsi del passato cancellando mezzo secolo di vita con il recupero dell’immagine architettonica distrutta dagli eventi. L’impostazione è semplicistica e ne ricorda altre passate e recenti tra cui spicca un esempio fisicamente lontano: la ricostruita città di Babilonia, in Irak, che celebra i fasti del Saladino di turno, Saddam Hussein. Senza andare tanto lontano, la ricostruzione del teatro della Fenice di Venezia, distrutto dall’incendio del ’96, è un riferimento italiano di come il problema si ponga a volte negli stessi termini anche da noi. Quando la ricostruzione assume un significato politico, trova enormi finanziamenti disposti a sostenerla. L’operazione è quasi sempre pseudoculturale perché gli addetti che dovrebbero condizionarne gli aspetti culturali sono frequentemente assenti, dal momento che non dispongono di una voce sufficientemente unita e potente. Spesso si defilano nel ruolo di spettatori arroccati nella loro torre d’avorio. Lo spazio viene occupato da chi, indipendentemente dalla specifica preparazione, ritiene che abbia poco senso prendere una posizione distante da milioni di persone per le quali restaurare significa fare operazioni del tipo di quelle citate. Certe distanze inizierebbero a colmarsi se le indecisioni di fondo sul modo in cui i problemi dovrebbero essere impostati, venissero affrontati alla luce della consapevolezza che, rivedendo alcuni aspetti teorici, nel restauro architettonico deve essere trovato spazio per la ricostruzione dell’immagine filologica. Ciò a condizione però di saper infondere in tale immagine quel tanto di fattori “critici" in grado di trasformare una gigantesca ma banale operazione di anastilosi in un fenomeno culturale. Parlando di fattori critici mi riferisco a elementi sufficientemente discreti ma percepibili in grado di suggerire a chi si ponesse il problema di individuare dove la ricostruzione sia stata tale. Nel caso di Dresda ciò sarebbe possibile visto che un grosso rudere è tuttora al suo posto e non è difficile salvaguardarne alcuni caratteri differenziandolo, con gusto architettonico, dalle ricostruzioni. L’operazione, concettualmente e praticamente difficile a Bagdhad, non dovrebbe esserlo più di tanto in Italia e nella Germania unificata, nel cuore di un’Unione Europea che si attiva attraverso le sue strutture per dare impulso crescente agli aspetti culturali. Eppure, a livello europeo, il problema si pone in termini molto maggiori di quanto non si pensi. Ciò vale soprattutto per i paesi del Nord. I paesi mediterranei, da parte loro, hanno sviluppato una maggiore coscienza nei confronti della propria eredità culturale e sanno rispettarla di più. Nel Nord Europa è ancora oggi diffuso un concetto di restauro confuso con il rifacimento e l’anastilosi che vede nel “facciatismo” uno degli aspetti negativi più emblematici. Il facciatismo risponde a una logica superficiale che salvaguarda alcuni elementi avulsi dal loro contesto confondendoli con il passato architettonico. Si conservano così le facciate inglobate, come setti murari decorativi mummificati in nuove costruzioni che nulla hanno a che vedere con il volume originario né con i livelli che si trovavano dietro le aperture storiche. Muovere passi concreti verso gli aspetti educativi e la ricostruzione critica è un orizzonte cui gli operatori attivi nel restauro debbono sapersi indirizzare. A Radicofani tale principio è stato applicato ed è stato abbinato alla salvaguardia tradizionale voluta dalla Carta del restauro: anche se in scala ridotta rispetto agli esempi citati, l’orientamento ha il pregio di collocarsi in un filone attivo in Italia. Di seguito due interventi, animati dallo stesso principio e apprezzati da studiosi e dal pubblico, vengono illustrati dai loro autori. Nel caso di Radicofani le ricostruzioni realizzate sono immediatamente percepibili. Si è detto in precedenza del sottosquadro applicato alle murature; per quanto riguarda le volte, quelle originarie erano in pietra, come risulta evidente dalle porzioni recuperate, ma integrazioni con pietra messa in sottosquadro avrebbero falsato la geometria architettonica dell’insieme generando intersezioni scorrette delle superfici curve. Si è ripreso allora l’esempio ritrovato nel bastione di Santa Maria e nella fuciliera di San Giovanni, dove sono visibili riprese settecentesche delle volte fatte con mattoni disposti a filarotto. Differenziando il metodo costruttivo le ultime integrazioni sono state realizzate con mattoni fatti a mano disposti a spina e angolati a 45° per ottenere una maggiore pulizia negli attacchi con le superfici delle volte originarie. Nonostante l’importanza che ha assunto nel corso dei lavori l’uso delle tecnologie di cui si è detto in precedenza, le verifiche storiche fatte sulla base dei documenti si sono dimostrate insostituibili e fondamentali nella comprensione e attualizzazione dei dati. Quasi una rivincita della tradizione rispetto al nuovo che supera, grazie al vecchio, i suoi limiti. Nel concludere l’analisi degli aspetti metodologici si impone una considerazione di fondo. Un precursore della ricostruzione critica, Carlo Scarpa, architetto non laureato, attivo restauratore di monumenti antichi in Veneto, ha precorso le tematiche illustrate e ha lasciato insigni esempi che si collocano su un versante opposto a quello di Dresda e Babilonia. Nel caso di Scarpa ci troviamo però di fronte a ricostruzioni che travalicano i limiti di una critica ricostruttiva e che sono apprezzabili grazie alla statura artistica dell’uomo. Sono da evitare gli errori commessi dalla scuola scarpiana che, anche se in buona fede, ha fatto danni irreparabili a monumenti con aggiunte arbitrarie che non riconducono all’espressività del maestro. Accettato il principio della ricostruzione è necessaria in conclusione molta scuola e un estremo rispetto dell’esistente perché questa divenga positivamente “critica" e sappia restituire all’architettura del passato una nuova vita. Ciò deve essere fatto nel completo rispetto dell’esistente grazie a un’approfondita, molto approfondita, analisi storica cui asseverare la tecnologia oggi disponibile.