Sedilo si trova fra ariose colline digradanti sul Tirso.
Su uno di questi colli si trova la chiesa di Sant’Antine, centro di una pittoresca festa in costume. Qui, infatti, si svolge anche la vecchia sagra che mostra ancora il volto di un tempo, le usanze antiche intatte, il suo umore genuino. Ogni anno essa rievoca i più pittoreschi costumi, tutte le più libere manifestazioni e i più schietti istinti della sua gente. E perciò la Festa di Sant’Antine, oltre che una sagra religiosa, è una specie di assemblea nazionale dei Sardi, in cui si esprime, come in un magico ritorno al passato, l’anima più appassionata dell’isola.
La piccola chiesa accoglie ogni anno migliaia di fedeli venuti ad implorare una grazia, a sciogliere una promessa, a confessare i crucci della miseria, le trepidazioni o le speranze davanti alla venerata immagine. Solo conoscendo, uno per uno, questi voti e queste suppliche, si potrebbero conoscere quelle segrete pene e quelle infinite piaghe della Sardegna che, forse, sfuggono al turista sbadato, distratto dai giocondi costumi color di fiamma e di cielo.
Alla festa di Sant’Antine sono rappresentati quasi tutti i paesi dell’isola con i loro costumi, con i prodotti della terra e dell’artigianato, con i cibi tradizionali, con i vini più generosi.
Sulla pianura incenerita dall’estate, sul sagrato e sulle colline sciamano e s’intrecciano i cori delle fanciulle accorse da ogni dove, col capo avvolto in nitide bende o adorno di fazzoletti a fiorami, o serrato entro cuffie variopinte, con il corpo chiuso nei giubbetti scarlatti d’argento e oro, con la gonna increspata da mille pieghe o listata di seta e di ricami.
Frattanto i mercanti gridano la loro merce: le arance e il Vernaccia quelli di Milis; pisci è iscatta (muggini, un tipo di pesce, N.d.R.) quelli di Cabras; l’aranciata i nuoresi; bisacce e coperte fiorite quelli di Villacidro e di Santu Lussurgiu; l’orbace (tessuto di lana, N.d.R.) quelli di Osilo; i cestelli e le corbulas (specie di contenitori per i prodotti della natura, N.d.R.) quelli di Castelsardo e di San Vero Milis.
Ma la fase culminante della festa è quella dell’Ardia, una grandiosa cavalcata cui prendono parte centinaia di cavalieri per commemorare la vittoria conseguita da Costantino su Massenzio al Ponte Milvio (anno 312). Sull’ora del tramonto, i cavalieri si raccolgono davanti alla casa del parroco e le laudi cantate dai fedeli annunciano la storia. Il prete consegna agli obrieri (presidenti delle corporazioni sarde, N.d.R.) tre bandiere: una bianca, una gialla e una rossa. Inizia così una marcia fra le salve dei fucili; precede la guardia d’onore, segue il parroco sul cavallo, poi i vessiliferi e la massa dei cavalieri.
Allorché il corteo giunge presso la pietra nella quale, per la sua forma bizzarra, il popolo scorge una donna così tramutata per la sua irriverenza verso il santo, il sacerdote intona le preghiere in lingua sarda. Poi la cavalcata si snoda per un sentiero dirupato; a un certo punto, il capo-obriere dà un segnale e tutta la turba si abbandona a una carica folle. Giunti dietro la chiesa, i cavalieri si arrestano per un attimo poi, compiuti sette giri intorno con lena rinnovata, corrono verso il pendio e si precipitano nella discesa, per compiere altri tre giri intorno alla pietra.
L’ultima galoppata tumultuosa è verso la chiesa, per salutare il santo guerriero. Allora tutte le bandiere si abbassano, tutte le fronti si scoprono. Seguono i balli e le gare canore in tutti i dialetti. Ma poiché anche i balli si differenziano da paese a paese, tutte le migliaia di pellegrini si accordano nel ballo tondo, nel duru duru, il ballo nazionale che tutti conoscono.
In questa gigantesca e favolosa danza notturna, che si snoda tra i fuochi dei bivacchi e le luminarie, tutta la Sardegna si incontra e si comprende in un gagliardo anelito comune che ha la potenza di cancellare il tempo e di assopire quella pena che è la compagna abituale di ogni altro giorno.
(Foto di Cristianocani in licenza Creative Commons)
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