Andrea Panozzo è un veterano della professione che ha declinato in diverse forme e sempre ad alti livelli.
Dagli esordi nel 1977 al quotidiano Eco di Padova, al periodo d’oro milanese dove si è specializzato nell’informazione finanziaria: con il noto settimanale Oggi nel 1981, con i mensili Capital nell’82 e Gente Money nell’85.
Nel 1987 è vice direttore di Personal Time, due anni dopo è caporedattore centrale di Class e di Milano Finanza.
Nel frattempo, esplora altri campi della comunicazione, con l’attività di capo ufficio stampa del gruppo Benetton nel 1988 da un lato; affermandosi dagli anni Novanta come editore di libri dall’altro.
La direzione della versione italiana della prestigiosa rivista Maxim, nel 2002, chiude la parentesi milanese e segna il suo ritorno in terra veneta, nella fattispecie a Rovigo che diviene sua città d’adozione. Tutt’oggi dirige il principale quotidiano provinciale La Voce di Rovigo.
Il suo vivere Rovigo da giornalista e cittadino, il presente e il futuro della professione, gli argomenti centrali dell’intervista rilasciata per Comuni-Italiani.it
Dopo oltre trent’anni di carriera, ricorda ancora quando e come divampò in lei il fuoco sacro del giornalismo?
Non credo che il giornalismo possa divampare improvvisamente. Si tratta a mio avviso di un processo evolutivo, quasi di riconoscimento. In altri termini, penso che si nasca giornalisti: non sempre ci si riconosce per tali, per cui ci sono in giro ottimi colleghi che, purtroppo, hanno preso strade diverse.
Per contro, mi è accaduto raramente di intervistare qualcuno che, a un certo punto, non mi dicesse qualcosa del tipo “Avrei voluto anch’io fare il giornalista, e per qualche tempo l’ho anche fatto”. Come se fare il giornalista fosse una cosa che si fa a tempo perso e senza alcuna preparazione.
Che stimoli offre la realtà di Rovigo rispetto ad altre in cui ha operato, sotto il profilo giornalistico?
Rovigo è una piccola città. Ci si conosce un po’ tutti, e questo certamente costituisce uno stimolo. Allo stesso modo, però, il fatto di conoscersi tutti è un limite difficile da superare. Voglio dire: c’è un sacco di gente che ti tira per la giacchetta, come si usa dire. E questo non è gradevole.
Milano, dove ho lavorato tanti anni, è di sicuro più fredda, distaccata. Ma anche, e forse proprio per questo, molto più professionale. L’altra faccia della medaglia è che nella grande città ti senti un po’ più solo.
Sul piano delle notizie, Rovigo offre quel che è: una terra straordinariamente bella dal punto di vista ambientale, con il suo Delta del Po che consiglio a tutti di andare a vedere, con i suoi due fiumi che la racchiudono, con la sua cultura profondamente contadina, con quelle arretratezze che in un mondo frenetico come l’attuale possono essere di sollievo.
C’è un episodio di cronaca che ha segnato questa sua avventura alla guida del quotidiano “La Voce di Rovigo”?
E’ accaduto due anni fa, proprio in agosto, ad Adria: la città polesana più popolosa dopo Rovigo. Una vicenda che ha sconvolto l’opinione pubblica di tutta la provincia. Una ragazza di 16 anni prese la pistola del padre e si sparò al cuore. Un colpo solo. Aveva alle spalle una storia bruttissima: l’innamoramento per un balordo molto più grande di lei, quando aveva solo 14 anni.
Lui l’aveva convinta a farsi fotografare col telefonino in pose che definire imbarazzanti sarebbe metaforico. E poi aveva fatto circolare le immagini. Sequenze che avevano raggiunto non solo ragazzini ma anche adulti, che se l’erano scambiate senza ritegno. Padri di famiglia che vanno a messa tutte le domeniche le mostravano agli amici in una catena senza fine. Si può facilmente immaginare che genere di clima si sia creato intorno alla vittima: quale imbarazzo, quale vergogna l’abbiano colpita.
Ma nessuno ha pensato di spostarla, di difenderla, di proteggerla togliendola da un ambiente ristretto nel quale, ovviamente tutti la indicavano. Dopo due anni non ha più retto e si è sparata. Ogni tanto ci penso. Penso alla sua solitudine. Non credo che a 16 anni si possano tollerare pesi simili.
Quando ritorna ad essere un semplice cittadino, in quali luoghi di Rovigo ama trascorrere la sua quotidianità?
Sono sempre un semplice cittadino: il mestiere che faccio (e che, in qualche misura, sono) m’impone di esserlo. Se dovessi vedere le cose con la presunzione della diversità, forse non potrei capire i desideri dei miei lettori: e questo sarebbe il peggior risultato possibile.
Allo stesso modo, e per la medesima ragione, non smetto mai di essere un giornalista: ogni sirena mi fa sobbalzare e mi spinge a verificare che cosa stia succedendo. Quindi, quando non sono al giornale continuo semplicemente a vivere. Cercando di stare il più possibile vicino a mia moglie e ai miei figli.
A casa, nel Delta. Ma mi piace passeggiare per le due piazze, Vittorio Emanuele e Garibaldi, percorrere il nuovo corso del Popolo, che ha l’aria della vera strada metropolitana, così ampio e godibile.
Adesso poi l’amministrazione comunale ha sistemato bene i giardini delle due torri rodigine, ed è piacevole vedere un po’ di verde in una città che, almeno in apparenza - perché gli edifici nascondono veri gioielli in questo senso - ha scordato un po’ quanto sia gradevole sedersi all’ombra con i piedi che affondano nell’erba. E’ una valutazione che i miei concittadini d’adozione non si aspetteranno certo da me, che sull’operato della giunta comunale non sono certo tenero.
Da esperto di lifestyle, pensando alla direzione di note riviste come Maxim, quali aspetti emergono nello stile di vita della comunità rodigina?
Rovigo è una piccola città. Arrivandoci da Milano ho riscoperto il gusto della piazza, la cultura della piazza. E’ il luogo dove ci si incontra e ci si ferma a parlare: col prefetto, l’assessore regionale o il parlamentare, il questore, il comandante dei carabinieri e, perché no, anche col vescovo. Ma la piazza è anche il luogo al quale si affacciano i bar dove bere lo spriz: un esercizio che (oltre a uccidere il fegato) consente di attaccar bottone con gente qualsiasi e parlare di argomenti banali.
Uno stile di vita quieto, da profonda provincia veneta, innervato dalle puntate in trattoria (ma è riduttivo definire così alcuni ristoranti di eccellenza che abbiamo in loco), dalle cene a casa degli amici e, perché no, da qualche incursione nella mondanità di Albarella dove si trasferisce il jetset polesano per trascorrere l’estate. E’ una piccola provincia, ma si rischia d’incontrare personaggi di fama nazionale: Emma Marcegaglia, Vittorio Sgarbi, Gian Antonio Cibotto…
Come spesso le capita di fare in una rubrica nota ai suoi lettori, le chiedo un preciso punto di vista sulla Rovigo di oggi, tra aspetti positivi e criticità.
Rovigo oggi deve per forza di cose affrontare un salto di qualità. Deve uscire dalla mentalità assistenziale del post-alluvione, e decidersi a entrare nel mondo. Ha molte risorse: economiche, culturali, sociali. E molti deficit: negli stessi ambiti.
Bisogna che si doti di un progetto di ampio respiro, e non di prospettiva limitata. Che si colleghi al resto della regione: e il Veneto è una locomotiva di forza impressionante. Deve decidere su quali delle sue caratteristiche può puntare per crescere. E far leva sulle specificità per acquisire una dimensione più autentica. Altrimenti rischia di essere ricompresa nella provincia di Padova.
Alla luce della sua lunga esperienza, come vede il futuro della professione giornalistica rispetto allla nuova frontiera del digitale e alle forme di citizen journalism on line?
Ho cominciato a fare il giornalista quando il fax ancora non c’era, e i computer ancora meno. Gli articoli venivano battuti a macchina e poi trasmessi in tipografia, dov’erano preda dei linotipisti. Insomma: il procedimento di fattura del giornale era completamente diverso. E certo più lento. Il che era uno svantaggio, da un certo punto di vista. Ma anche un vantaggio: perché lasciava più tempo per pensare. E quando si pensa si fanno meno errori.
Oggi tutto è maledettamente veloce, e pare che se una notizia non viene data nel momento stesso in cui prende forma non sia più una notizia. Bisogna fare i conti con questa situazione, e pensare che la gente, i lettori sono ormai abituati a ragionare in termini di tempo reale. Noi giornalisti ci dobbiamo adeguare. Ma questo non significa, come si dice, “tirar via”: vuol dire piuttosto reimparare a lavorare.
Braccia spalancate al citizen journalism?
Il citizen journalism va benissimo: fa pensare nuovamente al concetto di giornalismo sul campo, in presa diretta. Ma perché cresca bisogna fare in modo che i giornalisti che battono (letteralmente) le strade, abbiano una formazione solida e concreta. Non si deve infatti dimenticare che le regole sulla privacy sono lacci importanti e talvolta insidiosi. E che la propensione alla querela è in crescita esponenziale: sarà forse la crisi, che spinge alcuni a cercare facili guadagni sulle spalle di editori già molto provati.
Penso che il giornalismo abbia davanti un futuro luminoso, a patto che sia un futuro colto, ragionato e serio. Vedo troppi pseudo-giornalisti che approfittano della rapidità e della volatilità di Internet per scambiare il ruolo del giornalista con quello del commentatore. E non tutti quelli che commentano dicono cose intelligenti, purtroppo.
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