I Sicani che la fondarono la battezzarono Nissa, da cui il nome dei suoi abitanti nisseni.
Poi arrivarono gli arabi che aggiunsero al nome originario il suffisso “qualat” trasformandolo in “qualat an nissan”, che tradotto vuol dire castello delle donne.
Oggi è semplicemente Caltanissetta, capoluogo della provincia italiana meno conosciuta.
Almeno fino a poco tempo fa, fino a quando l’autorevole voce del Sole 24 ore le ha dato risalto conferendole il triste primato di città italiana dove si vive peggio.
Ma è davvero così?
Il tasso di disoccupazione di Caltanissetta è fra i più alti della penisola e di conseguenza il tenore di vita è fra i più bassi. Nonostante la posizione baricentrica, non è mai riuscita ad assolvere una funzione centrale di collegamento nei trasporti regionali, anzi strade e ferrovie sono obsolete e in certi tratti addirittura impraticabili. Il turismo è pressoché assente, appena l’uno per cento di quello regionale.
La lista potrebbe continuare, ma già questi elementi da soli bastano a spiegare come mai la qualità della vita nissena si sia meritata l’ultima posizione in una graduatoria nazionale.
Eppure, passeggiando per corso Vittorio Emanuele II o per corso Umberto I, le due principali arterie cittadine che si incrociano in piazza Garibaldi, la sensazione difficilmente sarà quella di trovarsi nel comune d’Italia in cui si vive peggio.
La gente sfoggia capi firmati, guarda le lussuose vetrine delle boutique e compra le borse di “prima classe“.
Più avanti dal Teatro Margherita, dedicato alla regina di Savoia, si vedono uscire avvolte in candide pellicce le signore che hanno appena assistito alla Carmen di Bizet.
Lontano dal centro, invece, verso la parte alta della città, gremito è il viale della Regione, noto agli indigeni semplicemente come il viale, punto di ritrovo dei più giovani che trascorrono la serata facendo la spola da un pub all’altro, assai numerosi nella zona. Concluderanno la serata sicuramente in uno dei noti winebar cittadini, magari a sorseggiare un amaro Averna, prodotto proprio a Caltanissetta ed esportato in tutto il mondo… anche se non sono molti a saperlo fuori dalle mura del castello delle donne.
Guardando tutto questo è difficile pensare che si tratti della stessa città dove la qualità della vita è risultata essere la più scadente. Il disincanto borghese con cui viene vissuto lo rende ancora più incredibile.
Ma il tour della città non è ancora finito. Prossima tappa: il quartiere angeli, il più antico della città, dove si erge il castello di Pietrarossa che alcuni storici fanno risalire niente meno che ai Sicani.
Purtroppo, nel 1567, un terremoto lo distrusse quasi completamente e oggi sopravvivono solo i resti delle due torri, ai cui piedi sorge il cimitero della città. Tutto intorno case diroccate ed edifici fatiscenti.
Per strada bambini macilenti giocano a calcio con una serie di vecchie lattine arrugginite. Basta un’occhiata per rendersi conto che le scarpe che hanno ai piedi le hanno ricevute in eredità da una sfilza di fratelli maggiori, quegli stessi fratelli maggiori che vivono di espedienti e furtarelli a cavallo di motorini truccati.
Su di loro si posano amorevoli gli sguardi dei loro genitori: la mamma massaia che dimostra 50 anni anche se ne ha appena 30 e il papà disoccupato che ogni giorno si reca al comune a reclamare il sussidio con cui campare. Sembra paradossale, ma pure loro vivono la città con genuino disincanto.
Forse è per loro che Caltanissetta è finita in fondo alla hit parade del benessere, ma loro probabilmente nemmeno lo sanno. Ignorano l’esistenza di un giornale che si chiama Sole 24 ore e pure se lo conoscessero probabilmente non lo leggerebbero, non per disinteresse, ma per mera strumentale incapacità.
Ecco… forse l’abisso fra le condizioni di vita dei suoi abitanti è la risposta a quel perchè nel titolo.
2 commenti a “Perchè Caltanissetta è l’ultimo comune d’Italia”
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Francamente quello che hai scritto nella parte finale dell’intervento mi pare eccessivo ed offensivo per una realtà, come quella nissena, che è senz’altro più varia e meno drammatica di come l’hai descritta.
Anche se casi come quelli narrati ancora oggi esistono nei quartieri più degradati, il generalizzare come hai fatto tu non rende giustizia a tutte le persone che ogni giorno si impegnano per cercare di migliorare le condizioni di vita di una città che, anche se una delle più povere della regione, non assomiglia minimamente all’impietoso ritratto da favela sudamericana che hai dipinto.
E non serve saper leggere il Sole 24 ore per denotare un qualunquismo anche manierista in questo intervento.
Quanto scritto in questo articolo non ha la pretesa di essere una verità assoluta, ma la lettura personale di una realtà che ritengo di conoscere.
Questa riflessione scaturisce dalla constatazione, triste, che negli ultimi anni il ceto medio sembra essere scomparso e le realtà sociali del nisseno si collocano ai poli (ricchi e poveri). Non volevo assolutamente negare il sacrificio e l’impegno delle persone che lavorano, a cui per altro non attribuisco la responsabilità delle storture esistenti, non c’era intento polemico, piuttosto molto rammarico.