15 Settembre 2009

La voce pordenonese del disastro del Vajont

di Alessandro Mascia (Blog Erto e Casso. Alla Scoperta della nostra Italia)

La frana del 1963 sul Monte Toc

La frana del 1963 sul Monte Toc

Una sera come tante, a Erto e Casso in provincia di Pordenone: era l’ottobre del 1963 e e l’autunno si faceva sempre più intenso. Per gli abitanti del paese la pace assoluta; il peculiare modo di vivere era finito già dai primi anni del secolo, quando qualche arrivista capì che si potevano sfruttare quelle acque dolomitiche per produrre energia elettrica.

E così, a cavallo tra le due guerre e nel primo dopoguerra, si iniziò a capitalizzare al massimo il Piave, il fiume che attraversa Belluno, provincia attigua a quella di Erto e Casso. Partì quindi una pesante creazione di una rete idrica, a scapito della natura. Nonostante le avvisaglie di un possibile disastro “naturale” causato però dall’uomo ci fossero tutte, la costruzione di una diga non subì veti. Non bastarono, difatti, diverse frane – coperte poi con il calcestruzzo – né diverse scosse sismiche rilevate dai sismografi della zona.
Già nel 1960, dunque, l’arrivismo e la voglia di denaro dell’uomo erano ad alti livelli.

Tuttavia, per limitare le frane della montagna, si decise di abbassare un po’ alla volta il livello idrometrico della diga. Fu, però, una decisione temporanea: nel biennio 1962-1963, infatti, il livello di precipitazioni fu misero e ciò indusse gli addetti ai lavori a rielevarne il livello. Una decisione assurda e, a posteriori, drammatica e omicida.

Poco prima dell’arrivo dell’autunno del 1963, si cercò di diminuire i fattori di rischio abbassando l’altezza del bacino della diga, dopo che ulteriori movimenti tellurici avevano fatto gridare allarme. Purtroppo, però, era troppo tardi. Alle 22:39 del 9 ottobre del 1963, il monte Toc - nome profetico visto che in friulano è l’abbreviazione di patocco, cioè marcio, che non vale nulla - si spacca: una massa enorme della montagna si stacca, precipitando all’interno della diga.

L’enorme mole di fango e pietra solleva una serie di tre onde che, superata la diga, spargono morte e miseria nei comuni interessati. Il comune di Erto e Casso, colpito da due delle tre onde, riportò danni gravissimi, mentre Longarone, sull’altro versante della montagna, fu rasa al suolo.
Si consumò così, in pochi minuti, una tragedia immane, quella che l’ONU ha definito, in un documento del 2008, “il peggior disastro ambientale mai accaduto nel mondo provocato dall’uomo”.

Erto e Casso registrò una doppia perdita: la prima, in termini di vite umane, 158; la seconda fu l’esodo.
Da poco più di 2100 anime, ne restarono in paese appena 800. Fu un fuggi fuggi generale, come consigliato dalle autorità.
Nacque così all’indomani della tragedia il comune di Vajont, che ospitò da subito oltre settecento persone, sfollate dalle città colpite.

Oggi, a oltre 50 anni dal disastro, Erto e Casso mostrano ancora, con un misto di orgoglio e vergogna, le ferite di quella tragica notte: sul versante della montagna è ancora ben visibile il “pezzo mancante” e gli abitanti non sono più tornati a essere numerosi.

Oggi Erto (più che Casso) è famosa per essere la casa di un noto scrittore, amatissimo dalle sue parti: Mauro Corona. Nato nel 1950 in una strada che portava a Trento, è poi tornato a Erto vivendo quindi la tragedia del 9 ottobre ‘63, paese nel quale è possibile incontrarlo spessissimo. Ed è proprio grazie alla peculiarità della zona che Mauro Corona è diventato quello che è: scrittore, scultore e arrampicatore. Insomma, un amante del bosco e della montagna. Paesaggi che certo non scarseggiano da queste parti.

Oggi a Erto e Casso respirano poco più di 400 anime. E’ quindi difficile trovare tradizioni fortemente radicate nella popolazione. Tuttavia, nonostante la tragedia, ne sono sopravvissute due.
Una si tiene nella Settimana Santa prima di Pasqua, più precisamente Venerdì Santo, ed è la Sacra Rappresentazione del Venerdì Santo, mentre l’altra avviene il 15 agosto ed è una sorta di sagra popolare, intitolata “Il Vecchio e il Nuovo”, nella quale è possibile ammirare, immersi in un luogo fuori dal tempo, i friulani più friulani dilettarsi a fare i piccoli artigiani.

(Foto di Robmontagna in licenza Creative Commons)

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3 commenti a “La voce pordenonese del disastro del Vajont”

  1. vajont2003 scrive:

    Salve.
    Lei è davvero sicuro di tutto ciò che ha scritto qua sopra??
    Tranne la riga (la_riga!) con “Mauro Corona” le ultime 4 righe (e anche qui il “i friulani più friulani” è difficilmente affermabile, e meno ancora accettabile) tutto il raccontino è pura fantasia. Esempio? (uno per tutti) gli “oltre 50 anni dal disastro”.

    Mi segua: se il 1963 (esatto) è l’anno della STRAGE MAFIOSA che Lei chiama pudicamente ‘disastro’, e oggi siamo nel 2009, quanto fa??
    2009-
    1963=
    46
    Cordialità. Tiziano Dal Farra, Udine.

  2. Alessandro Mascia scrive:

    Certo, una svista può capitare a chiunque. In cos’altro sarebbe fantasia? Sono a conoscenza delle sue teorie di “Mafia longaronese”, io per ora ho scritto di storia, se lei vuole parlare di fantasia è libero di farlo. E la invito a rileggere l’articolo. Non avendo la certezza ma il sospetto che comunque ci fossero affari loschi dietro la costruzione della diga, ho lasciato scivolare i miei sospetti in frasi come “Già nel 1960, dunque, l’arrivismo e la voglia di denaro dell’uomo erano ad alti livelli” e “Una decisione assurda e, a posteriori, drammatica e omicida.”.
    Saluti.
    Alessandro Mascia

  3. Massimo Di Bello scrive:

    L’articolo voleva ricordare questo tragico evento così determinante per la storia del comune, se Tiziano ci aiuta a precisare meglio quanto avvenuto,
    può essere utile a tutti, ma manteniamo il discorso costruttivo :-)

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