Giungo a Foligno la sera di un mercoledì di giugno. Girando per la città, ad un tratto vedo un gruppetto di ragazzi che, in un piazzale isolato e senza apparenti motivi, percuotono ritmicamente alcuni tamburi. Il giorno dopo chiamo un mio collega, natio di Foligno, il quale mi dice che tutto ciò fa parte della preparazione coreografica della Giostra della Quintana.
Due volte l’anno, nei mesi di giugno e settembre, a Foligno si svolge la tradizionale Giostra della Quintana, rievocazione storica di una gara tra cavalieri che si teneva anticamente. Le fonti storiche parlano di quest’evento già a partire dal Quattrocento. Fu nel primo Barocco che il torneo fu inserito tra le coreografie carnevalesche di Foligno. Interrotto per alcuni secoli, dal 1946 è diventato un appuntamento immancabile.
La città è storicamente divisa in dieci rioni, corrispondenti ad altrettante zone del centro storico. Il culmine della competizione si raggiunge durante la Quintana. La sfida più importante riguarda i rispettivi cavalli e cavalieri. Il “teatro di scontro” è il Campo de li giochi, un percorso sterrato a forma di 8 che i cavalieri percorrono, cercando di infilzare con una lancia tre anelli sorretti da una statua. Vince chi termina le tre tornate avendo raccolto tutti gli anelli nel minor tempo.
Ma la manifestazione in realtà va oltre, coinvolge il cuore e la pancia dei folignati; un continuo sfottò che interessa l’intera Foligno. Il mio amico mi parla anche delle Taverne, simili a delle osterie antiche che ogni rione allestisce nei palazzi o nei luoghi storici della città. Capisco che la sfida, oltre che sul campo, si combatte anche a colpi di forchetta. Ma il protagonista indiscutibile delle taverne è soprattutto lui: il vino.
Non ricordo, dai tempi della mia adolescenza, una ciucca come quella presa la sera in taverna. I folignati amano fare un gioco che è semplice ma diabolico allo stesso tempo: Filume’. È il diminutivo di Filomena, una donna che si incita in canto mentre i partecipanti, attorno ad un tavolo, ritmicamente e seguendo precise regole si scambiano dei bicchieri vuoti, battendoli sul tavolo. Chi sbaglia è costretto a bere un bicchiere di vino. Alla fine ne bevo una decina e crollo. Più sbaglio e più ingoio; ma più mi ubriaco e meno sono lucido, fino ad innescare un perverso circolo vizioso.
Il giorno dopo si svolge la tradizionale Sfilata, un corteo di figuranti con abiti caratteristici del tempo, che attraversa le vie della città. I dieci rioni sfilano sfoggiando tutte le loro virtù. Mi dispongo ai margini del corteo e inizio a scattare foto, affascinato dalla cura maniacale dei particolari coreografici. Ad ogni passaggio i supporter si accendono, inneggiando canti a sostegno dei loro beniamini. Estasiato da cotanta scenografia, costringo il mio caro amico folignate a rimediarmi un biglietto per la Giostra, che si svolgerà la sera seguente.
Finalmente il grande giorno. Entriamo nel Campo per assistere alla gara. Tutto è basato su riti, abitudini, consuetudini. Come la lettura del Bando, il testo scritto in volgare seicentesco che dà ufficialmente il via alla gara. Alla partenza di ogni cavaliere vige la ferrea regola di fare silenzio assoluto, per favorire la concentrazione dei cavalieri. Fa effetto, in un campo contenente migliaia di persone, riuscire a sentire distintamente gli zoccoli del cavallo che corre. Come sempre, anche stasera girano voci e pronostici sui favoriti alla vittoria. Puntualmente smentiti dall’imprevedibilità del torneo. Alla fine c’è un vincitore. E tanti vinti. Tra i trionfatori regna la gioia pura. Negli occhi degli sconfitti intravedo la tristezza, ma anche un senso di speranza per il prossimo torneo. Con i pensieri rivolti già a settembre, quando il rito, la gara, la magia si ripeteranno di nuovo.
(foto di waytovalinor in licenza Creative Commons)
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