La signora ha novantasette anni, ma pare sia viva da sempre. Il suo nome è Clotilde, mi dice fiera: “Chiedi, chiedi in giro, qui a Barbaresco mi conoscono tutti.” Si perché, qui, sono nati suo padre, e il padre di suo padre, e così via indietro per molte, troppe generazioni. Rimarrei ad ascoltare ore la storia di queste terre, ma più ancora mi affascinano i gradini che portano al castello. “Qui – prosegue lei – fino a qualche anno fa tutti i vecchi si sedevano per raccontare storie, noi siamo quelli delle storie”. E in un’epoca dove le storie sono state rimpiazzate dalla cronaca rosa, dalla mondanità e dalla televisione fa certamente effetto parlare con lei. E’ figlia e moglie, nonché madre, di grandi viticultori, mi confessa di essere una regina.
“Una regina?” le chiedo stupito e divertito. “Certo, noi qui non facciamo vino, noi facciamo il Barbaresco. Conosci la differenza?” Vorrei sprofondare, quindi non confesso di essere astemio. La guardo negli occhi profondi e scavati di chi ha visto le guerre, di chi c’era prima delle guerre. Prima ancora del solo pensiero delle guerre. “Non conosco la differenza. So che è un vino molto pregiato.” Sorride per l’ennesima volta, bonaria, come una madre al figlio. “Si, è pregiato. E’ il vino delle regine.” Capisco l’allusione di prima e per la prima volta la vedo come una vecchia regina che si vanta del suo regno: il vino. “Solo quattro paesi fanno Barbaresco, – prosegue - non molti considerando che è un vino famoso dappertutto. Però di una cosa sono sicura, tu ferma una persona qualsiasi, a caso, fra tutte quelle che vedi qui, e sta certo che fermerai uno per cui il Barbaresco non è un vino, ma tutta la propria vita.”
Poi guarda l’orologio del campanile, capisco dalla sua espressione che si è fermata troppo a parlare con me, per scusarsi mi invita a cena, ma non posso accettare, vorrei, ma non posso. Così la ringrazio baciandole la fronte in segno di rispetto e mi allontano lasciandola alla sua vita. Una vita che si ripete ciclicamente ma con amore da quando è diventata donna. Già lontano, la sua voce mi raggiunge “Vai a Barolo, lì ho un fratello. Completerai il tuo racconto”. Mi dirigo verso la macchina, un ragazzino ride. Mi fermo. Mi guarda. “Non devi ascoltarla quella, non lo vedi che è matta?”. Pondero tra cose da fare e cose da non fare, frasi da dire e frasi da non dire. Vorrei umiliarlo. Ma vedo che è ubriaco. E capisco ancora una volta, quello che ha in corpo non è Barbaresco, è alcol, qualsiasi alcol sia. E’ la forzatura dei giovani che vogliono evadere, in un modo o nell’altro, dal destino a cui sono assegnati a forza, quello di fare vino. E l’unico modo che hanno per uscirne, ironia della sorte, è il vino stesso ma senza arte, senza palato. E’ il vino come arma.
Riabbraccio la coscienza, non dirò nulla a quel ragazzo, non oggi comunque. Porterò con me le parole di una regina, fino a Barolo.
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