Incontriamo Bruno Barbieri del Ristorante Arquade (a San Pietro in Cariano) e scopriamo gli autoctoni dimenticati della Valpolicella.
Qual è il suo rapporto con il territorio e quale quello con la tradizione?
Io amo ascoltare il territorio; è una mia particolare sensibilità che mi induce a rispettare fortemente tradizioni e materie prime ma in un modo, per certi versi, anche deterritorializzato. Mi spiego: io viaggio molto. Africa, America latina, ovunque. Per me la cucina e l’hotellerie pertengono all’ambito dell’ospitalità, del convivio e della socialità. Dovunque i valori gastronomici rispecchiano questi valori umani.
Il mio rispetto per il territorio è amore per la terra e per l’uomo allo stesso momento. E mi piace riproporre sapori fedeli al territorio, ma anche lontani geograficamente, proprio in quanto accomunati da questa cultura dell’ospitalità che è universale.
Ma voglio precisare che il rispetto, che è la stella polare del mio agire, si riflette in ogni aspetto della mia vita personale e professionale. Sono stato, a volte, indicato come uno dei teorici della gastronomia neotradizionale perché ho dichiarato di preferire questo approccio culinario all’innovazione più spinta. Il fatto che a livello di gusti preferisco un approccio ad un altro è solo qualcosa che pertiene alla sfera delle opinioni personali. Ma non metto minimamente in discussione il lavoro e la professionalità degli altri colleghi. Questa strumentalizzazione mi addolora. Ma, purtroppo, è legato al fatto che noi chef siamo oramai delle griffe.
Ci spieghi.
Quasi come degli opinion leader, possiamo essere travisati e strumentalizzati: anche “per fare notizia”.
Ciò nonostante ci troviamo di fronte ad un’evoluzione della professione importante. Quando ho iniziato questo lavoro c’era l’idea che chi andava all’alberghiero lo faceva perché non aveva voglia di studiare! Non era come in Francia, dove la professione di chef è vista in modo prestigioso. Poi, anche in Italia, grazie a maestri come Vissani, Pierangelini, Marchesi, le cose sono cambiate.
Mi interessava la sua idea di “territorio”. In senso largo, inclusivo, direi.
Esattamente. Rubo suggestioni ai miei viaggi. Ho il pasticciere napoletano. Sono un emiliano trapiantato in Veneto votato all’ascolto di questa regione che mi affascina.
Perché?
Dal punto di vista delle materie prime, il Veneto vanta un’offerta meravigliosa. Pianura, laghi, montagna, mare, malghe, collina: c’è tutto. E’ necessario conservare questa ricchezza e promuovere la coscienza della cultura gastronomica; come si dovrebbe fare con qualsiasi cosa riguardi la cultura, d’altronde.
Lei cosa fa per promuovere e proteggere la cultura?
Tutto. Ad esempio ho scritto un ricettario, insieme con con la famiglia Speri, storici produttori di Amarone: L’uva nel piatto. L’obiettivo era valorizzare gli autoctoni dimenticati della Valpolicella. Una ricchezza enologica strabiliante. Molti vitigni che si utilizzavano per spezzare e che stavano scomparendo…
… utilizzati prima che si imponessero disciplinari così severi!
Quali sono questi autoctoni?
Possiamo ricordare la Bigolona, la Cabrosina, la Dindarella, la Molinara, la Pelara, la Oseleta, il Pipion, la Rossignola, la Terodola…
I vini ai quali Lei è più affezionato?
Amarone, Valpolicella classico e Soave. Ma anche il Lambrusco della mia Emilia merita di essere ricordato. Le sue bollicine leggere puliscono perfettamente il palato di chi gusta la sapida norcineria emiliana.
I suoi valori aggiunti in cucina?
Creare sempre una giusta atmosfera che faccia uscire il talento dei miei “giocatori”. Io mi sento un allenatore.
Ed il talento, poi, è innato. Lo capisco subito da come un giovane maneggia un pollo od un pesce.
E’ importante creare l’atmosfera…
… la “cultura aziendale”.
Noi stiamo 15 ore insieme. E’ importante anche divertirsi: sentire musica, guardare la tv…
Solo così l’Uomo dà il meglio.
Rispetto per l’Uomo, sempre.
Certo. E anche rispetto per la natura. Responsabilità sociale. Dopo essere stato in Amazzonia ed aver visto che per produrre un cuore di palma devi ammazzare un albero che ci mette 50 anni a creare la polpa, non cucinerei mai la palma. Da me non troverete mai i datteri di mare che per prepararli devi sventrare una scogliera, capisce?
Certo. La sua sensibilità è avvertibile già dal tono di voce e la voglio “far arrivare” ai lettori.
Oggi mi interessa molto il biologico e il biodinamico.
Ovviamente. Qualche esempio della vostra carta?
Il legame col territorio è sempre presente. Posso citare l’alzavola in salsa di castagne al Recioto o i tortelli di fagianella, piatti che incarnano l’amore locale per la cacciagione. Proponiamo il mantecato ai tre cereali, espressione della cultura del risotto, e anche il baccalà mantecato, che sull’asse Venezia-Vicenza esprime un tratto regionale veramente caratterizzante.
La sua soddisfazione professionale?
Quella di lavorare in un albergo. In Italia, più che la tradizione del grande ristorante in hotel, c’è quella dell’osteria di campagna. Eppure, ovunque nel mondo, la grande ristorazione d’albergo è la grande ristorazione per eccellenza. Per “spingere” il sistema Italia è stato fondamentale rafforzare la tradizione dell’hotellerie e colmare questo gap.
Riferimenti:
Ristorante Arquade
presso l’Hotel Villa del Quar, via del Quar 12 (Pedemonte) - 37020 San Pietro in Cariano, Verona
Telefono: 045-6800681
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