“Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.
Sul volo Napoli-Milano delle 16,45 rimuginavo questo celebre aforisma di Calvino, chiedendomi per l’appunto quale risposta mi aspettavo dalla metropoli ambrosiana.
Con quale bagaglio emozionale me ne sarei andato.
Fossi stato un fratello “Capone” avrei potuto chiedere lumi al buon Mezzacapo, sul fatto che sia lecito o meno “toccare la nebbia” e se i milanesi parlano e camminano come noi.
Sapevo, tuttavia, crucciandomi abbastanza della cosa, che la mia prima sortita a Milano sarebbe durata poco più di 24 ore. Il tempo di seguire, il giorno dopo, un seminario di appena sei ore e avrei subito fatto ritorno a Napoli.
L’arrivo a Linate e poi senza nemmeno avere il tempo di guardami intorno, eccolo lì l’autobus n° 73, fermo davanti all’uscita dell’aeroporto in procinto di partire. Un balzo e clunk… la porta dell’autobus si chiude dietro le mie spalle. Direzione Piazza San Babila, capolinea della corsa.
Una baby sitter con gli occhi a mandorla rimbrotta in un milanese che farebbe invidia allo scrittore Andrea Pinketts, due fratellini smaniosi di pigiare l’irresistibile “pulsantone” verde che campeggia sulla porta per l’uscita passeggeri, nel loro, e nel mio, immaginario “stargate” urbano di mondi sconosciuti.
Mondi sconosciuti che davano forma e colore alle mie fughe eidetiche.
La voce della mia vicina mi ricatapulta nel presente. “Guardi che è arrivato, qui dietro l’angolo prende la metro e arriva a Piazza della Repubblica. Si ricordi linea rossa Duomo, linea gialla…”.
Sì, buonanotte! Era già molto che mi ricordassi il nome del mio albergo. Risucchiato da una fiumana di persone, mi ritrovo giù nella città sommersa.
Una moderna atlantide brulicante di umanità è quella che si offre alla mia vista. Un’umanità poliedrica e febbrile cui mi sembrava di aver dato vita, come in un fast forward wind, con il telecomando della mia immaginazione.
Cercando di farmi spazio tra quelle orde di impiegati, manager e studenti vomitati ora da questo ora da quel varco, cercavo davanti a me “lo duca mio”, qualcuno che mi guidasse verso il “fil rouge” della linea “1″ con la medesima sollecitudine che muoveva Poe nel tenere dietro al “mefistofelico” vecchio della folla.
Sono fortunato, un avvocato trentenne, con una malcelata anima da sibarita – un trionfo di griffe – mi porta sulla strada giusta.
Impegnativo non distrarmi e ricordare che solo una fermata dopo, Duomo, devo scendere e proseguire sulla linea gialla. Il vivace quadro umano che si disegna in quel breve rettangolo di ferro, è troppo invitante per tentare di sopire il mio animus investigativo di gesti e tic altrui.
Sulla linea gialla a due fermate dal traguardo, cedo. Una manciata di minuti per rintanarmi nella mia coscienza, con la pirandelliana consapevolezza mai tradita che ciò vuol dire “gli altri dentro di me”. Due occhi, da quando son salito, non hanno smesso di fissarmi. Un settantenne dall’aria un po’ brontolona e malinconica assieme, una via di mezzo tra Poirot e Umberto D.
Si è perso, chissà da quando sta girando tra giallo, rosso e verde ma l’orgoglio gli impedisce di ammetterlo. Fingendo di voler distrattamente conversare sulla dimensione labirintica e spersonalizzante della metropolitana, si rivolge a me in un simpatica inflessione emiliana: “O deserta bellezza di Ferrara, ti loderò come si loda il volto… Cosa vuole che capiscano qui delle città del silenzio del Vate”.
Annuisco.
“Torno dal Brasile e sa lì conosco ogni angolo di strada. In questo budello oscuro sei fortunato se riesci a trovare l’uscita”.
Lo rincuoro. “Non le nascondo che anch’io mi sono affidato al caso per trovare la linea giusta. Alla fine ho capito che per piazza della Repubblica dovevo prendere la linea gialla, nella direzione della stazione centrale”.
“Eh sì, ha proprio ragione!”
Un quarto d’ora dopo ero in albergo, insieme alle mille risposte che Milano aveva dato alle mie domande.
4 commenti a “Le mille risposte di Milano”
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Bel racconto, mi è piaciuto veramente molto e mi sarebbe piaciuto ancor di più se non ci fossero state tutte quelle citazioni colte che rompevano la vena narrativa.Comunque bravo.
Mi fa piacere che ti sia piaciuto. Nel caso di una grande città come Milano è facile correre il rischio di cadere nella banalità. Le citazioni, ahimè, fanno parte del mio stile e riconosco che spesso ne abuso.
Grazie ancora per le tue osservazioni.
cosa vuol dire “fughe eidetiche”?
Ciao Nik,
“eidetico”, in soldoni, si riferisce a un’immagine prodotta dalla mente, ma percepita da uno dei nostri organi di senso come un’esperienza sensibile.
Ergo, nel mio caso, sta a indicare un momento di sovrapposizione tra realtà e immaginazione, senza possibilità di discernimento.
Il termine “fuga” è usato in un’accezione poetica: la fuga non è una scelta arbitraria ma è qualcosa che avviene da sè.
Spero di essere stato esauriente.