28 Giugno 2008

Bordighera, terra di inglesi

di Lorenzo Rulfo (Blog Bordighera. Racconti di Viaggio)

BordigheraL’invito è per Bordighera, da lì una piccola imbarcazione a vela salperà verso il mare aperto, o verso la Francia, o chissà, ancora non ci è dato saperlo. Il viaggio in macchina non è particolarmente lungo, qualche ora, in compagnia di Marco, studioso, storico e quant’altro e Jenny, giovane studente di medicina, originaria di Sampford. Un viaggio piacevole, assonnato data l’ora, ma piacevole.

Il discorso verte sulla città che stiamo per raggiungere. So di sapere decisamente meno degli altri, in fondo per il poco che gli stereotipi regalano Bordighera è mare, sole e pesto. Ma non era a Genova il pesto? Lo faranno anche lì, non è poi così distante. Marco prende la parola. “E’ un piccolo centro ma molto ricco, pieno di vita. Non è il mare la cosa più bella che c’è a Bordighera.” - “L’hai preso da qualche libro?” - “Ci andavo in villeggiatura da piccolo. Con i miei.

Ma Jenny è impaziente, lei sa qualcosa, si è documentata, e dall’espressione certo quella cosa le piace. Ci spiega, fiera di una terra che forse non ha mai visto, che un tempo molti inglesi come lei villeggiavano lì, che addirittura erano più degli abitanti veri e propri. “Tu non sei inglese” qualcuno le fa notare, “certo che lo sono. Sono nata qua, ma sono stata concepita là. Certo che sono inglese.” “Beh, anche volendo, mi chiedo cosa possa significare che fosse piena di inglesi. Le cose non cambiano.”

E qui ci rimane male, forse si arrabbia. Perché, impercettibilmente, cambia tono di voce e muta espressione. “Certo che cambia, perché gli Inglesi a Bordighera hanno fondato banche, aperto negozi, circoli, scuole e perfino teatri. Ma più di tutto hanno portato la loro signorilità, il senso di dignità che in Italia non è mai esistito. Lo sai che veniva stampato un settimanale in lingua inglese?

La macchina tace qualche istante, certo non era nostra intenzione offendere, solo quel senso goliardico e patriottico che unisce molti giovani italiani. Non c’è nulla di male, ma di fronte al volto acceso e quasi triste tutto passa, che importa. Che importa che siano stati gli italiani, gli inglesi? Non ci siamo ancora arrivati. Poi magari il sole, il mare, le palme, gli ulivi ci prenderanno per mano facendoci dimenticare l’appartenenza e potremo sorridere alle parole pronunciate su una macchina che si muove, ora, veloce. Ma l’orgoglio ci tiene in silenzio, nessuno parla più fino a destinazione.

Arrivati al porto saliamo sulla Clarence sorridenti, è una barca magnifica. Una volta in mare aperto non posso fare a meno di guardare la città, con la sua parte alta arroccata, mi sento un navigante, immagino la sensazione di arrivare qui magari dopo giorni di mare, in burrasca, cancellando l’idea avuta di non arrivare più. Perché il mare spaventa, meraviglioso, e spaventa. E non sono più gli inglesi, perché in mare non c’è paese, non c’è appartenenza, il mare ti fa suo e per noi, genti di città, è più pauroso di un temporale o di una discussione fra amici.

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