Esiste un paesino, nel cuore dell’Irpinia, che prende il nome dal capostipite di una potente famiglia di feudatari: Gesualdo.
Il suo centro storico è armoniosamente arroccato intorno all’imponente castello medioevale che, con le sue torri, si staglia su tutto l’abitato.
Situato sulla sommità di una collinetta, esso è visibile già dalla strada statale e offre immediatamente l’immagine del tipico esempio di architettura feudale.
Le sue origini risalirebbero all’epoca longobarda (metà del VII d. C.) e si presenta delimitato da quattro torrioni circolari con una corte interna, al cui centro si trova un pozzo in pietra locale. Il complesso, che ha subito vari danni nel corso dei secoli fino a quelli, gravissimi, causati dal terremoto del 1980, oggi è in attesa di un considerevole intervento di restauro.
Le fonti indicano che nell’anno 650 d.C. un cavaliere di nome Sessualdo, dopo l’assalto di Pavia, fu incaricato dal duca di Benevento di erigere una roccaforte difensiva a protezione dei domini longobardi.
Col passare degli anni la roccaforte si trasformò in castello rispetto al quale, gradualmente, si sviluppò a raggiera la futura cittadina medioevale e rinascimentale.
Il nobile casato fu reso ancor più illustre da uno dei suoi membri, Carlo Gesualdo, principe di Venosa, geniale musicista e madrigalista, ma anche feroce assassino.
La madre del principe era la sorella del cardinale Carlo Borromeo e la protezione dello zio, divenuto poi santo, gli fu di grande aiuto lungo tutta la sua vita.
Il principe, sposò la cugina Maria d’Avalos di stirpe reale spagnola, ma il loro matrimonio ebbe un tragico epilogo: troppo dedito alla musica e alla caccia, il principe trascurava la sua bella moglie, la quale cominciò a tradirlo con l’avvenente duca d’Andria.
Nel loro sontuoso palazzo di piazza San Domenico Maggiore a Napoli si consumò il terribile omicidio della principessa per mano del marito, sorpresa in flagrante adulterio.
Le cronache raccontano che il principe escogitò un piano di vendetta perfetto: finse di andare a caccia, fece manomettere le serrature del suo appartamento e incaricò tre sicari di irrompere nella stanza e di pugnalare gli amanti. Dopodiché ordinò che i loro corpi, nudi e mutilati, fossero esposti pubblicamente ai piedi dello scalone di Palazzo Sansevero come memento mori, affinché tutti potessero vederli.
Subito dopo l’omicidio, Carlo si rifugiò nel suo feudo di Gesualdo - ecco che torna la città dell’Irpinia - dove visse per diciassette anni assalito da un profondo senso di colpa.
Sotto il suo dominio il castello perse l’aspetto originario di fortezza medioevale e fu trasformato in un fastoso palazzo rinascimentale, luogo di ritrovo per musicisti e uomini di cultura tra i più famosi del tempo: basti fare il nome di Torquato Tasso, che scrisse versi bellissimi poi messi in musica dall’illustre madrigalista.
Durante il suo soggiorno al castello il principe, perseguitato dal ricordo di quella notte, si fece ideatore di composizioni geniali, di madrigali struggenti e malinconici e credette di poter lavarsi la coscienza con opere di pietà: curò amorevolmente il paese di Gesualdo fondando chiese e conventi, per cercare il perdono di Dio.
Tra le opere da lui commissionate vanno annoverate: la Chiesa del SS. Rosario, la Chiesa degli Afflitti, la Fontana dei Putti ma, più di tutti, va ricordato il Convento dei Padri Cappuccini, dove nel 1909 soggiornerà San Pio da Pietralcina.
Il complesso, di cui è parte integrante la Chiesa della Madonna delle Grazie, fu fatto erigere dal principe come ex voto nel 1592, come si legge sulla lapide apposta all’ingresso. La chiesetta, restaurata di recente, presenta nella facciata, semplice e austera, sopra l’arco di ingresso, lo stemma dei Gesualdo.
L’interno è ad una sola navata e custodisce sull’altare maggiore la cosiddetta “Pala del Perdono”, un olio su tela commissionato dal principe nel 1609 a Giovanni Balducci da Firenze.
Il dipinto raffigura il principe di Venosa genuflesso e con le mani giunte, sostenuto dallo zio Carlo Borromeo, nell’atto di chiedere perdono a Cristo con l’intercessione della Vergine e dei santi.
In basso, poi si notano due figure dannate avvolte dalle fiamme: una bellissima donna bionda (la moglie fedifraga) e un cavaliere (l’amante). Sulle loro teste è raffigurata, inoltre, l’anima del piccolo Alfonsino, morto nel 1600, in ascesa verso il Paradiso.
Si narra infatti che, dopo l’uccisione dei due amanti, Carlo si macchiò di un altro crimine orrendo: egli avrebbe ucciso anche il figlioletto, perché in lui credette di ravvisare i lineamenti dell’amante della sua prima moglie.
La prova dell’infanticidio sarebbe, appunto, questa tela.
Oggi il corpo del principe riposa a Napoli, nella chiesa del Gesù Nuovo, nella cappella dedicata a Sant’Ignazio de Loyola ai piedi dell’altare, eretto a sue spese. Le sue spoglie sono protette da una lapide marmorea in latino, consunta dal tempo, su cui si legge: “Uomo di integra pietà”.
Nonostante l’evidenza delle prove, infatti, nessuno pagò per la strage: i tre delitti restarono impuniti grazie all’intervento del viceré Zuñiga, il quale fece sospendere l’inchiesta poiché essa riguardava non solo un potente principe, ma il nipote di un cardinale e di un santo.
Già sul finire del ‘500, nella tradizione popolare, il luogo dell’omicidio è diventato il “palazzo maledetto” e nacque la leggenda, ancora oggi viva nella memoria dei napoletani, del fantasma di Maria d’Avalos: alcuni affermano di vedere, di notte, nella piazza prospiciente il palazzo, un’evanescente figura femminile vestita di nero, che si aggira dolente reclamando giustizia.
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