Quante Napoli racconta il cinema? E’ veramente impossibile, in realtà, enumerare tutte le immagini e i luoghi di Napoli che il cinema ha registrato.
Un’identità multiforme come quella del capoluogo partenopeo, spesso più cucita addosso dall’occhio del viaggiatore che elaborata dalla città, rende particolarmente difficile pizzicare la Napoli più rappresentativa e vera, scremata sia dal pietismo, dal pauperismo, dall’indulgenza stereotipata verso i problemi sociali, che dalla cartolina oleografica, del mare azzurro e del Grand tour.
Ecco, allora, che iniziamo questo viaggio da una Napoli piccolo borghese, lontana sia dai problemi sociali dei vicoli, che dalla grandeur di Posillipo. Piazza Vanvitelli, il Vomero, Palazzo Cellammare, Chiaia: è la Napoli di Mario Martone descritta in Morte di un matematico napoletano; ed ancora, la città filmata da un astro nascente del cinema italiano, Paolo Sorrentino, ne L’uomo in più (2001) e Le conseguenze dell’amore (2004).
Ovviamente non possiamo dimenticare quella Napoli folcloristica, dei vicoli, che è solo una delle tante facce della città, ma che costituisce, probabilmente, l’immagine par excellence del capoluogo partenopeo, egemonica e dominante nell’immaginario cinematografico degli spettatori, almeno quelli non napoletani. Pensiamo a Ieri, oggi, domani (1963), di Vittorio De Sica, scritto da Edoardo De Filippo, con una Sofia Loren epitome della bellezza mediterranea che interpreta una venditrice di sigarette di contrabbando che, per evitare il carcere, passa da una gravidanza ad un’altra. De Sica, in quel capolavoro, immortala una discesa della Loren dal vicolo dei cinesi alla Sanità, fino a Mergellina, con un codazzo di scugnizzi, simili a tanti cherubini vicino alla Madonna. De Sica descriverà molte Napoli, come In Matrimonio all’Italiana o ne L’Oro di Napoli. E’ proprio a quest’ultima pellicola che Antonio Capuano si richiamerà, in Polvere di Napoli, per sostenere che di quell’immagine popolare portatrice di grandi valori d’umanità non è rimasto che la cenere.
E’ questa la contraddizione più forte che reca la rappresentazione cinematografica del vicolo napoletano, sospeso fra l’Eden del buon selvaggio di Rousseau e la critica di Ernesto De Martino, che ci descrive una plebe sanfedista e senza presenza in senso crociano.
Una contraddizione che è espressa, ad esempio, in Decameron, dove Pier Paolo Pasolini individua in quella povera umanità dei bassi un baluardo antropologico capace di resistere a ciò che egli definiva il “nuovo fascismo della civiltà dei consumi”. Agli antipodi c’è la Napoli di Antonio Capuano, dove la travagliata umanità del quartiere Sanità, in Pianese Nunzio, è completamente assorbita nei canoni consumistici dei valori “borghesi”.
Il cinema più recente, infatti, ha insistito sulla definitiva disumanizzazione della plebe napoletana – una sorta di mutazione antropologica - offrendone un’immagine assolutamente feroce e spietata. Come in Pater familias, di Francesco Patierno, del 2003, e, soprattutto, Gomorra, il pluripremiato film di Alessandro Garrone (habitué di Napoli dai tempi dei primi corti), tratto dall’omonimo best-seller di Roberto Saviano, che ci porta negli alveari di Scampia. Eppure, nella violenza e nel degrado, c’è un cinema che racconta una dimensione “classica” di Napoli. E’ la metafora dell’orestea alla quale attinge Capuano per Luna Rossa (2001) e Mario Martone in Rasoi e Teatri di guerra.
Non possiamo non ricordare pellicole, invece, che hanno immortalato un altro topos partenopeo: gli scugnizzi. Li ritroviamo in Paisà (1946) di Roberto Rossellini, Proibito rubare di Luigi Comencini (1948) - che ritornerà a Napoli in Tutti a casa, con Alberto Sordi - e Scugnizzi di Nanny Loy. Quest’ultimo, particolarmente legato alla città, la descrive nel memorabile Le quattro giornate di Napoli, e in gustose commedie come Pacco, contropacco e contropaccotto e Mi manda Picone, una delle tante, fortunate, interpretazioni del ligure Marcello Giannini in vesti partenopee.
L’icona napoletana di Marcello Giannini tornerà nelle commedie di Lina Wertmueller qui ambientate, come Pasqualino Settebellezze (1975) e Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti (1986).
Le commedie, ovviamente, ci portano dritti alla Napoli di Totò, fantastico interprete di Napoli Milionaria, diretto dal maestro del teatro napoletano, Edoardo De Filippo.
Ma vale la pena ricordare anche le pellicole di Massimo Trosi e Luciano De Crescenzo, entrambe capaci di spaziare dai palazzi barocchi ai “casermoni” degli anni ’50.
Proprio questi ultimi sono gli infami protagonisti de Le mani sulla città, di Francesco Rosi, l’epitome dei film denuncia e di impegno civile del cinema italiano degli anni ’60. Rosi fotograferà ancora Napoli in La sfida (1958) e Lucky Luciano (1973). Sulla scia dei film di denuncia, segnaliamo Processo alla città (1952), di Luigi Zampa, Il camorrista – esordio dell’86 di Giuseppe Tornatore che narra gli intrecci mafia-politica realizzati da Raffaele Cutolo -, Le occasioni di Rosa (1981) e Baby gang (1992) di Salvatore Piscicelli e Fortapàsc (2009), di Marco Risi, il biomovie sul coraggioso giornalista anticamorra Giancarlo Siani. Ambientazioni “forti” (Gianturco, stazione centrale, la periferia tra Napoli e Acerra), ma tutt’altro tono hanno sia I buchi neri, di Pappi Corsicato (1995) che La vita degli altri (2002) di Nicola De Rinaldo.
Volgiamo lo sguardo ai monumenti di Napoli. Il duomo, i decumani. Li ritroviamo in Operazione San Gennaro di Dino Risi e Questi fantasmi, diretto da Edoardo De Filippo, nel ’54, con Renato Rascel.
Un’ulteriore immagine della città la dà Pasquale Squittieri con I guappi (1974), con Franco Nero, e L’avvocato De Gregorio (2003), recitato da Giorgio Albertazzi.
Infine, benché l’immagine non sia delle più edificanti, per completezza, non possiamo dimenticare i trash movies di Nino D’Angelo e le sceneggiate di Mario Merola. Un omaggio colto alla sceneggiata ce lo regala, infine, il torinese Tonino De Bernardi in Appassionate (1999; con Iaia Forte e Anna Buonaiuto), con delle fantastiche interpretazioni di alcuni classici della canzone napoletana.
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