Boscotrecase è un piccolo paese della Provincia di Napoli, un tempo denominata Sylva Mala per la presenza di una fitta vegetazione che ne impediva il popolamento. Oggi è sede di uno dei luoghi di culto più antichi dell’area vesuviana: la Chiesa dell’Ave Gratia Plena.
Non dissimile dai comuni limitrofi, la parte urbana si dipana tra strette stradine in salita, che si dirigono verso il Parco Nazionale del Vesuvio e l’abitato centrale conserva lo stile classico, con palazzi centenari dotati di grandi portoni di accesso ai cortili.
Un lungo viale alberato, centro nevralgico del paese, accompagna lo sguardo fino a spingerlo alle pendici del vulcano. Tra i negozi, ancora resistono piccole botteghe che richiamano il passato del paese, all’inizio essenzialmente abitato dai contadini che vivevano dediti all’agricoltura, all’apicoltura e alla coltivazione delle viti.
Come accennato, il comune di Boscotrecase sorge alle falde del Vesuvio ed è legato a molte tradizioni, nonostante la sua autonomia risalga ai recenti anni ottanta - prima infatti il territorio rientrava nel comune di Trecase. Tra le attività peculiari, la lavorazione della pietra lavica: antichissima pratica artigianale che risale al seicento.
La pietra lavica è un materiale più robusto del marmo e il territorio vesuviano ne è ricco per la presenza del vicino vulcano che, durante le sue numerose eruzioni, ha ricoperto i terreni vicini di lava rovente. Raffreddandosi, poi, si è trasformata in pietra che viene utilizzata per svariati impieghi.
Modellare la pietra di porfido, disegnare le sue forme, amalgamare la materia su cui gli uomini imprimono la loro storia è, come detto, una pratica molto antica. I prodotti derivati dalla lavorazione della pietra lavica erano destinati, allora come oggi, soprattutto alla pavimentazione stradale delle principali vie di tutto il bacino mediterraneo.
Per la realizzazione di fregi, portali ed elementi architettonici di vario genere si preferiva il più tenero piperino dell’area flegrea.
Al tempo dei romani, erano gli scalpellini- anticamente definiti lapicadae - a preparare i frantoi e le pesanti macine, così come nel ‘600 e ‘700 lavoravano per abbellire le ville dei sovrani borbonici e dei nobili di corte con stupendi portali, statue, colonne, fontane e superbi scaloni.
Ne sono testimonianza le magnifiche dimore che si dipanano lungo l’itinerario artistico culturale battezzato come Miglio D’oro, che dalla Reggia di Portici arriva a Torre Annunziata: ville che testimoniano l’arte, la forza e la pazienza degli scalpellini del Vesuvio.
I pochi strumenti a loro disposizione erano conservati nella caratteristica cascetta di legno: c’era il puntello che serviva a sgrossare la pietra, lo scapezzino per la rifinitura e lo scalpello normale per la lavorazione del materiale grezzo. Con la bocciarla, poi, si dava alla superficie l’aspetto granulato, mentre la mazzuola veniva usata per menar colpi sugli scalpelli.
Visto l’enorme potere distruttivo della lava incandescente, in queste zone è stato coniato il motto “Dalla morte alla vita”, ossia dalla tragicità degli eventi alla capacità dell’uomo di sconfiggere il male e crearne la vita.
Così quella che modificò il paesaggio e la stessa forma del vulcano rappresenta oggi una risorsa artistica ed economica di grande valore. E la passione con cui questi artisti lavoravano e plasmano tutt’ora la pietra grezza, senza forma, scarna di vita, la rende piacevolmente affascinante.
E’ da menzionare, tutt’oggi importantissima, la fabbrica che produce prodotti in pietra lavica di Boscotrecase. La Lamiem, con le odierne tecniche di produzione, è una della maggiori aziende di lavorazione della pietra lavica in Italia. In questo opificio sopravvive inalterata da secoli la tradizione manuale della lavorazione dei basoli destinati alla pavimentazione stradale. Questi blocchi, pesanti ognuno anche diverse decine di chili, sono modellati e rifiniti completamente a mano solo con l’ausilio di martello e scalpello.
Fiore all’occhiello della produzione in pietra lavica sono anche manufatti con inserti in ceramica: capolavori artigianali dell’arte vesuviana destinati prevalentemente al risanamento dell’enorme patrimonio edilizio napoletano a riprova che la tradizione è alla base dello sviluppo.
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