Quanta terra arsa. E’ passato il tempo della mietitura, è passato anche quello della trebbiatura ed ora il paesaggio dorme (sarebbe meglio dire che stramazza) sotto un solleone spossante. Le pietre, i campi, i profili di case: tutto trasfigurato in giallo, con il respiro pesante. Mi ricordano certe poesie dei sussidiari ai tempi delle elementari, che parlavano del ritmo lento della natura, del lavoro, delle stagioni. Oppure particolari scenari pirandelliani, tra zolfare e terreno sterile. Ma erano altri tempi, altri libri, altri luoghi, altri pensieri. Ora c’è solo questo cuore duro della Basilicata da attraversare; con un vecchio furgone che, per rispetto del silenzio, sferraglia meno del solito, pacatamente.
Rompe la monotonia dei luoghi un trenino di una carrozza sola, sbucato da dietro un rilievo. Probabilmente è diretto verso Matera e affronta la pendenza della tratta con una leggerezza da pattinatore. E come resistere alla tentazione di martellare sul clacson alla vista di questo inaspettato complice? Suono all’impazzata, urlo, gesticolo allegramente e percorriamo, paralleli un pezzo di rettilineo insieme. Ma dopo qualche chilometro, strada asfaltata e strada ferrata si scollano e proseguono, per volontà degli ingegneri che le hanno progettate, ognuna verso il compimento del proprio destino. Do un ultimo, prolungato, suono di tromba a congedo di questo breve incontro. L’elefante di ferro verde e grigio mi risponde con il suo lamentoso barrito. Torno a guidare, a sudare, a contare lontanissime nuvole bianche spalmato sulla pelle del sedile. Finché non vedo delinearsi il territorio delle Matine.
“Qui c’è la Puglia” mi suggeriscono assemblee di oliveti transennate dai tipici muretti a secco, srotolati con pazienza da maestranze custodi di un arcaico segreto. Qui c’è Altamura, porta della regione provenendo da questo lato. Saluto e ringrazio, ma passo oltre. Mi fermo qui, a Santeramo in Colle, sul groppone calcareo delle Murge.
Santeramo ha il fascino della terra di mezzo, al confine delle tre province di Bari, Taranto e Matera.
Punto verso il cuore della città, dopo averlo circumnavigato lungo Corso Italia e Corso Tripoli che lo abbracciano a guisa di grande raccordo anulare. Le stradine del centro sono strette per le macchine, figurarsi per un furgone! Miracolosamente riesco a parcheggiare lungo le strisce blu vicino Piazza Garibaldi e faccio la mia conoscenza di un sistema di pagamento di parcheggio diciamo… anomalo! Lascio ai tecnici il compito di scaricare, il mio ormai l’ho fatto.
Passo il resto della mia giornata lì, a Piazza Garibaldi, al tavolino di un elegante caffè all’aperto. Mi sento come innestato in un’armonia con quello che c’è intorno. E’ raro sentirla così netta.
Il Palazzo Marchesale sulla destra, di fronte la Chiesa Madre spalleggiata dal Palazzo Di Santo dalle sue simmetrie perfette e la corona di sette statue, il campanile della Chiesa del SS. Crocifisso che spunta alla fine di Via Roma… tutti ipotetici pesi e contrappesi che regolano l’equilibrio di invisibili leve estetiche.
La sera mi coglie ancora lì, a raccogliere ritagli di vita della piazza pulsante. Come in ogni paese del Sud Italia che si rispetti, prima o poi tutti passano di qui: i ragazzi che schiamazzano espressioni dialettali indicibili, tra un calcio di pallone e l’altro; ragazze agghindate per lo struscio; gli anziani che scendono le scale della chiesa a passi incerti. La notte limpida dell’altipiano chiude il piccolo mondo meridionale di Santeramo come una miniatura sotto una campana di vetro.
(Foto di Vincenzo Di Gregorio)
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